Questa meravigliosa vallata era praticata già nel Neolitico. Appartenne agli Umbri, agli Etruschi, e, passaggio obbligato delle legioni romane, fece parte di quell’impero nel 266 a.C..

Nel 542 d.C. fu invasa dalle orde barbare di Totila, re dei Goti; nel 560 fece parte dell’Impero di Bisanzio, divenendo poi nel 603 proprietà privilegiata dei Longobardi, passando quindi ai Franchi ed alla Chiesa con Pipino il Breve. Nel secolo IX sorsero i castelli di Alfero, Montepetroso, Rocchetta e Corneto, ricchi di fascino e di storia.

Nel 1090 fu possesso del monastero della Cella: dal 1250 fu privilegio del visconte Aguselli di Cesena e nel 1300 sopportò le angherie delle masnade di Guglielmo Novello dei conti Guidi.

Nel 1500 la natura inclemente sconvolse l’abitato con un’immensa frana e nel 1527 questo territorio fu calpestato dalla ferocia dei Lanzichenecchi. Nei secoli successivi fece parte del Granducato di Toscana e dello Stato Pontificio e fu nuovamente insanguinata nel corso dell’ultima follia mondiale.

(Le informazioni seguenti sono tratte dal libro ALFERO (Ad Farum), di G. Marco Guccini, 1990)

L’origine del nome “Alfero”

L’origine del nome di Alfero non è stata ben definita: c’è chi ritiene che sia derivato dalla nobile famiglia romana “Alfia”, alla quale l’imperatore consegnò questa località; altri dicono che “Alfero” derivasse dalla corruzione della parola “Ad Fanum”, in quanto la località, popolata dall’antichità, sembra fosse sede di un tempio pagano di gran rinomanza: infatti esiste ancora oggi il toponimo “Pian della Fananta”.

Il nome potrebbe però derivare anche dal latino “apud pherum”, “ad pherum” poi “alpherum”, cioè il luogo dove si lavora il ferro. A sostegno di questa tesi basti ricordare gli antichi nomi di “Cà di Bruciaferro”, della via “dei fabbri” ecc. Ma forse l’origine nome Alfero, più sicura e certa e quindi di maggior credenza è senz’altro quella di derivazione latina “ad farum”, in quanto nell’antichità gli innumerevoli fuochi accesi dai pastori umbri, si vedevano per tutta la vallata del Savio fino al mare Adriatico, come se fosse un immenso faro.

La Pigolotta

Citerò un fatto tragicomico realmente accaduto nel 1306 e riportato da molti scrittori e appassionati odierni. Certo Astuzio del Cotolo, personaggio di un certo rilievo in quella comunità, aveva dato in moglie a Ugolinuccio di Alfero, la propria figlia di nome Nunzia. Matrimonio, dote e tenimentum (terra concessa dal Monastero dell’Abbazia del Trivio) fecero felice per qualche tempo quel nuovo focolare, ma sfortuna volle che Ugolinuccio morisse improvvisamente nello stesso anno. Per poter mantenere i possedimenti del defunto marito, Nunzia sarebbe dovuta essere incinta prima del decesso. Astuzio, che astuto credeva di essere ma non era, mise in giro la voce che la figlia Nunzia era incinta, e per dare sicuro credito alla novella, obbligò la figlia ad imbottirsi la pancia di stracci, che aumentavano puntualmente di mese in mese. Ma per farla all’Abate non era sufficiente la stupidità di Astuzio, che stando ormai per scadere il tempo, mandò la figlia a Mercadello, fuori della giurisdizione dell’Abate. Costui, però, incaricò certa Pigolotta da Alfero, che aveva capacità di ostetrica, affinché si recasse a Mercadello e lì si informasse se effettivamente Nunzia fosse incinta e desse alla luce un bambino. Pigolotta, assai precisa, fece il suo lavoro meticolosamente e dopo molto tempo ritornò dall’Abate e riferì che Nunzia non era incinta, ma, che per farlo credere si era imbottita il ventre di stracci. L’Abate registrò le dichiarazioni davanti al notaio e fece notificare, sia ad Astuzio che a Nunzia, che la stessa non avrebbe potuto ereditare le sostanze del marito in quanto deceduto senza prole.

La frana

L’influenza tra uomo e natura è reciproca, quasi sempre, però, è l’uomo che la modifica alterandola per le sue necessità. A volte accade però che la natura incontrollabile ed inclemente, con la sua forza devastatrice, si prenda dolorose ed amare rivincite.
Intorno al 1500, l’abitato di Alfero, era sovrastato dalla grande montagna, che, da tempi remoti, sembrava proteggere, con la sua aria severa l’intera valle, e che, già dall’epoca umbra era sicuro asilo di quella e delle future popolazioni.

L’inverno si stava avvicinando e la grande montagna, come tutta la zona, era avvolta da una densa, nera e minacciosa coltre di nubi, che con il diminuire della temperatura, si trasformarono in una pioggia fitta e persistente che durò ininterrottamente quasi tre settimane, riversando sulla terra un’enorme quantità di acqua. Il terreno né assorbiti in modo impressionante e, i ruscelli straripavano e l’Alferello rumoreggiava, paurosamente, da lontano. Gli abitanti, nelle loro misere case, custodivano gli armenti assai preziosi, incuranti della loro stessa salute, ma preoccupati e a volte impauriti per quella che molti dicevano essere una maledizione divina. Occorre ricordare che questi erano secoli in cui la società era assillata dai demoni, dal peccato e dal timore del giudizio divino e gli uomini erano ricchi di superstizione e di ingenua credulità. Comunque, alle pestilenze, ai saccheggi, ora si aggiungeva anche quella specie di diluvio che arrecava danni smisurati. La grande montagna a picco, molto ma molto più alta di quanto lo sia oggi, incuteva terrore, si presagivano rovine e disgrazie, ma quel monte, si diceva esisteva da sempre e tante altre volte era piovuto e forse anche questa volta tutto sarebbe finito entro breve tempo. Quei poveri montanari, nella loro genuina, accesa, appassionata ed ingenua religiosità, fecero dire tante messe, innalzarono tante e sincere preghiere, ma non furono esauditi.

Ad un tratto l’aria divenne calda, troppo calda per quella stagione, mentre la pioggia scendeva sempre più abbondante. Gli animali domestici, gli armenti e i cani si innervosirono e negli uomini crebbe la paura. Anche volendo, non sapevano dove andare, ma sono certo l’idea di abbandonare tutto non li sfiorò minimamente, tanto erano abituati a lottare e soffrire per sopravvivere. Quella sera tutti tardarono a coricarsi, molti aprivano “l’uscio” e guardavano fuori preoccupati, salvo però a tranquillizzare, con un falso e pietoso sorriso, la famiglia, quando lo richiudevano. Era ormai notte fonda quando i cani del piccolo villaggio, iniziarono il loro impressionante e preventivo laterale che terminarono, ben presto con una folle e per molti inutile corsa verso la salvezza. Solo il vecchio pastore di Ilinguccio di Giannino, si fermò, non certo per istinto, ma piuttosto memore delle affettuose carezze e degli interminabili giochi, fatti sull’aia, con i suoi giovani padroncini, e ciò gli impedì di correre, come tutti gli altri, verso la salvezza.

Improvvisamente si udì un tremendo e lugubre boato e la terra impazzita, iniziò la sua danza di morte. Il terremoto fu spaventoso. Tutti si trovavano, all’improvviso, sui pagliericci con gli occhi sbarrati nel buio e la bocca spalancata e paralizzata dal terrore. Gli adulti furono pervasi da un cosciente brivido di morte. L’enorme montagna coperta di abeti e pini secolari, franò improvvisa ed in clemente sul misero villaggio inghiottendo ed amalgamando tutto e tutti in quell’orrido impasto(*). Ai pochi superstiti e agli abitanti dei villaggi vicini, si presentò al mattino successivo una scena apocalittica. La montagna, vanto e faro dell’antichità, non esisteva più, la grande valle dell’agnello era stata colmata da un’enorme colata grigia scesa dalla cima e da gran parte della montagna stessa. Degli abitanti, delle case, degli animali e di tutto l’apparato vegetale non c’era più traccia, tutto era stato profondamente sepolto dalla melma che ancora ribolliva. Quando le piogge cessarono, Ci vollero diversi anni prima che si potesse mettere piede in quel terreno umido e ballerino e di quel martoriato villaggio, agli occhi dei nuovi coraggiosi “colonizzatori”, apparve solo una vecchia porta che per volontà loro diede il nome alla località che fu chiamata e si chiama ancora oggi “Portaccia”.

All’inizio del 1600 quando Alfero si ingrandì nuovamente e si costruirono le case dei “Cerri” e la relativa strada di accesso, il terreno era ancora poco stabile e poco consistente e se ne dovette costruire una parte incavandola e fu proprio lì che venne trovato ciò che restava del un’intera famiglia. Con un solenne rito religioso, venne innalzata nella località una grande croce di legno e quel pezzo di strada avvenne, dei nostri antenati, chiamato “e bugh”. Passarono gli anni, il villaggio si ingrandì e la vita divenne più complessa, i mestieri e le tecniche si perfezionarono, dando a quegli umili montanari un discreto periodo di pace.

(*) La frana ci fu perché all’enorme montagna venne a mancare la base friabile ed erosa dalle acque. Il terremoto contribuì però in modo determinante. La parte orientale e l’altissima cima scivolarono a valle, formando il piano del Ronchetto, pian di Maggio e il piano dei Cerri, scolando poi dove c’è Cascherito fino in Trafiume. Cà di Bruciaferro e le Gretole rimasero come erano. Il nome “Trafiume” sorse in questo periodo e indicava quella parte di terreno contenuta tra i due bracci dell’Alferello che si erano formati con la spinta dalla frana. Molti anni più tardi, durante alcuni lavori di bonifica venne dato il nome alle “Pinate”, perché grandi pini e abeti che si ergevano sulla cima della montagna, con la frana erano arrivati fin laggiù ed in numero così grande che crearono insormontabili difficoltà ai lavori di bonifica, a quel tempo fatti a mano .

Dopo la prima guerra mondiale

Alla fine della prima guerra mondiale, Alfero era ancora sotto la provincia di Firenze, ma per poco: infatti Mussolini, dopo qualche anno, passò l’intera zona appenninica alla provincia di Forlì e i nostri monti e la nostra valle con i suoi abitanti entrarono a far parte della Romagna. Il 18 luglio 1926 Italo Balbo visitò il Monte Fumaiolo e la sorgente del Tevere, il fiume “sacro ai destini di Roma”.

Il 15 febbraio 1927 si tenne ad Alfero la prima festa da ballo. Vennero fatti i preparativi e la sala del Casone, usata in precedenza come aula scolastica, fu arredata con rudimentali tavole e un palco per “l’orchestra”, composta da due elementi muniti di fisarmonica, e tutto fu illuminato con lumi a petrolio e “acetilene”. Tutto era pronto, ma pochi minuti prima di iniziare, l’Ispettore vietò di ballare, per obbedienza ad ordini superiori. Gli uomini si radunarono in consiglio e incuranti delle minacce, stabilirono di dare ugualmente corso alla festa, che iniziò alle venti circa. Si chiamarono le mogli e le fidanzate, il poco vino riscaldava gli animi e fra stecche e canti si arrivò alle ventidue, quando, all’improvviso, la porta si spalancò ed apparvero due carabinieri che, partiti a piedi in precedenza da Verghereto e muniti del telegramma prefettizio che aveva vietato la festa, ordinarono l’immediata sospensione del ballo. Ci furono attimi di sgomento, amarezza e dispiacere perchè nessuno riusciva a capire il perchè del diniego. Qualcuno corse dal Podestà e lo rese consapevole dell’accaduto, tanto che lo stesso si presentò poco dopo nella sala e rendendosi personalmente responsabile dell’ordine pubblico, ordinò che la festa continuasse. Il ballo finì a notte fonda e il poco vino e le castagnole furono divise cordialmente con le Forze dell’Ordine, che rimasero fino al mattino.