Nato a Larciano di Bagno di Romagna il 16 agosto 1911, era di corporatura atletica, capelli biondi spruzzati di bianco, volto ossuto e acceso, rischiarato da un sorriso largo e abituale.
Era un motociclista spericolato, per correre ovunque c’era bisogno per sistemare controversie o per provvedere quando qualcuno aveva bisogno di aiuto. Un buon avvocato dei poveri, che non limitava la sua missione alla sola funzione spirituale, ma aiutando materialmente la popolazione di Alfero e lasciando dietro di se numerose opere e strutture preziose per tutto il paese.
Durante la seconda guerra mondiale, il parroco di Alfero e il popolo, fecero un voto alla Madonna: di fare una festa annuale di ringraziamento alla Vergine, venerata nel santuario del Castello, se li avesse protetti dalle distruzioni belliche. Ricevettero la grazia e istituirono la festa. Così una sera di maggio, l’immagine della Madonna viene portata da Castel d’Alfero in processione alla Chiesa parrocchiale di Alfero, dove rimane per tre giorni; la domenica successiva la processione verso Castel d’Alfero riporta l’immagine della Madonna nell’antica chiesetta.
Nel 1963 il Papa annoverò Don Gino Saragoni fra i Camerieri Segreti Soprannumerari e lo dichiarò Monsignore. Ma Don Gino rimase Don Gino. Non cambiò il suo stile di vita e sorrideva divertito se qualcuno lo chiamava con il nuovo titolo.
Nel 1981 scrisse e distribuì alla popolazione il “Libro d’Oro”, in cui riportò tutte le opere più importanti realizzate nel corso dei quarant’anni del suo sacerdozio ad Alfero, e in particolare, la costruzione della nuova Chiesa.
Quello che segue è un articolo apparso su “La Serpe”, rivista letteraria dell’A.M.S.I. (n. 4/2000) e scritto magistralmente dal Dott. Gilberto Tonti, che fu il medico di Alfero negli anni in cui Don Gino era parroco di Alfero, e che lo descrive alla perfezione:
“Pochi giorni dopo l’insediamento, come titolare, nella mia prima condotta medica venne a trovarmi, non ricordo se a casa o in ambulatorio, il parroco del paese, Don Gino Saragoni: un prete all’antica, che non aveva e non avrebbe mai ceduto alla moda del clergyman o di altre divise più o meno innovatrici e continuava ricoprire la sua mole imponente con la tradizionale tonaca nera, ancora più lunga e più larga di lui, tant’è che l’orlo inferiore era costantemente schizzato di fango o imbrattato con olio da motocicletta. Uniche note di colore il colletto bianco inamidato e uno smisurato fazzoletto da naso, rosso a pallini chiari, che perennemente sporgeva da una delle tasche e dava l’impressione di cadere da un momento all’altro sul pavimento della chiesa o lungo la strada del paese.
Ai primi caldi saltava fuori puntualmente un secondo fazzoletto, in genere bianco, che Don Gino aveva l’abitudine di infilare fra collo e colletto per limitare il fastidio del sudore: sudava infatti senza parsimonia e la quantità di sudore che colava dai capelli, radi e semi grigi, era così abbondante da costringerlo a pulire continuamente le lenti degli occhiali.
Era, seppure di poco, meno alto di me, ma certamente pesava una trentina di chili in più e questa eccedenza ponderale lo esponeva, già da qualche tempo, nonostante la frugalità delle sue abitudini, ai malanni vascolari che ne avrebbero provocato la morte. Quando improvvisamente morì di infarto all’età di 70 anni, ricordo ancora esattamente la data del 13 settembre 1981, io mi trovavo a Praga e venni a saperlo due o tre giorni dopo il funerale: l’avessi saputo in tempo avrei interrotto la mia visita al cimitero ebraico del ghetto e le mie ricerche sulla misteriosa figura del Golem che, senza un preciso motivo, mi affascinava da quando ero capitato per la prima volta in quella città e ne avevo sentito parlare da qualcuno che, come me, subiva l’attrazione delle storie inverosimili e fantastiche.
Questo sacerdote, di cui non ricordo l’uguale nonostante ne abbia conosciuti anche troppi, possedeva la rara capacità di esercitare la sua missione predicando il meno possibile e prodigandosi invece, senza limiti di tempo e di buona volontà, per chiunque avesse bisogno di lui.
Mio padre, che due o tre volte al mese veniva a trovarmi, ebbe l’occasione, da cattolico praticante com’era, di confessarsi con lui e mi confidò – e la sua confidenza conteneva sicuramente un suggerimento – che Don Gino perdonava molto prima e molto di più col cuore che con le parole del sacramento.
Nonostante la mia noncuranza così evidente nei confronti delle questioni religiose e morali, non perdeva l’occasione opportuna per muovermi qualche bonaria e discreta osservazione, com’era d’altronde suo preciso dovere di sacerdote: “le maestre, caro dottore, sono qui per insegnare ai bambini e non per altri motivi e le signore che vengono a villeggiare durante l’estate dovrebbero venirci col solo proposito di allontanarsi dalla calura della città”.
Questo modo del tutto personale di esprimersi affabilmente e senza malizia su certe abitudini che avevo, suscitava la mia simpatia e qualche volta mi era perfino sfuggita la promessa, puntualmente disattesa alla prima occasione, di rinunciare per lo meno a qualcosina.
Quando appresi della sua morte da una telefonata di mio figlio ne provai uno smarrimento paragonabile a quello che, molti anni prima, mi aveva procurato la scomparsa di mio padre e lo rividi, come l’avessi davanti a me in quel momento, mentre arrancava col suo passo, pesante ma efficace, in mezzo all’unica strada di Alfero, evitando sistematicamente i marciapiedi e spazzando accuratamente l’asfalto con l’orlo della sua tonaca che, per le dimensioni, sarebbe stata più che sufficiente a rivestire due preti di normali proporzioni.
Ancora oggi, quando mi capita di evocare fra le pieghe della memoria l’immagine delle pochissime persone che hanno meritato il mio ricordo riconoscente e rispettoso, ne rivedo il viso acceso e rubicondo – eppure non bevevo o solo qualche volta e moderatamente – l’addome imponente e le spalle da minatore, anche se abitualmente si alimentava con molta frugalità e prudenza.
E poi la sua voce, sonora e potente, che rispondeva al saluto di tutti e l’allegria, disinvolta e intelligente, con le quali accettava le battute sulla sua “pancia”, sugli occhiali perennemente appannati dal sudore e, immancabile, sul famoso fazzoletto rosso a pallini chiari più adatto all’onorevole Peppone che a Don Camillo.
Era totalmente esente da ogni atteggiamento sacerdotale, falsamente ispirato e ipocritamente modesto, e da qualsiasi ostentazione di quella pseudo-cultura clericale – fatta di citazioni preferibilmente latine, di brani logori e largamente abusati del Vangelo e di poche insignificanti letture – che fino a pochi decenni fa ha giustificato e mantenuto l’ascendente e l’autorità morale del prete sulle popolazioni affidate al suo ministero.
Era privo di cultura e non ne faceva mistero, limitava l’uso delle parole latine alla sola celebrazione della Messa, ma pronunciandole sottovoce come se temesse di infastidire chi l’ascoltava e quasi provandone vergogna e disagio: era invece dotato di quella naturale inclinazione alla carità e all’impegno personale che poneva a disposizione di chiunque, per qualsiasi motivo, avesse bisogno di lui.
Un giorno alla settimana, qualche volta anche due, dava appuntamento ai parrocchiani, che avevano qualche faccenda da sbrigare, davanti al bar di Lino Biserni: raccoglieva ogni genere di documenti che poi di persona consegnava agli uffici distrettuali di Cesena o a quelli di Forlì dove, da tempo, era familiare e conosciuto come il “prete centauro”, abilissimo e navigato nel disimpegno diligente e tempestivo di qualsiasi commissione.
Partiva col suo motore, non ricordo se si trattava di una Guzzi o di una Gilera, era comunque una 250, proteggendosi la testa con un copricapo di cuoio aderente munito di sottogola e riparandosi dall’aria con un logoro giaccone di pelle che, probabilmente, aveva ricevuto in eredità da suo nonno: la sola cautela che usava era quella di annodare sulla schiena la metà posteriore della veste per lasciare libere le gambe durante le manovre sul cambio e per evitare che l’orlo andasse a finire fra i raggi delle ruote.
Era quella della partenza, a veste sollevata, una delle poche occasioni per ammirare da vicino gli scarponi di tipo militare con i ganci di ferro e i laccioli di spago, poco meno popolari del famoso fazzoletto rosso.
Sapevamo che, una volta arrivati negli uffici, lasciava sul motore casco e giaccone e si presentava agli sportelli puntualmente vestito da prete: nessuno, dico nessuno, l’ha mai convinto a prendere 100 lire per l’acquisto di un litro di benzina.
Un anno o due dopo il mio arrivo, verso la metà dell’autunno, decidemmo di regalargli una macchina da usare, per lo meno, durante l’inverno e una domenica mattina, verso la fine di novembre, procurandogli una commozione incredula e profonda, gli presentammo alla fine della messa una “500 modello C balestra lunga” arrivata segretamente la sera precedente.
Alla sua prima partenza era presente quasi tutto il paese: aveva incontrato una certa difficoltà a infilarsi nella macchina ma finalmente, dopo centinaia di viaggi, aveva lasciato nella canonica il giaccone, quella sottospecie di casco e gli occhiali da motociclista.
Poco prima di mezzogiorno arrivò al centralino la notizia che Don Gino era ricoverato all’ospedale di Cesena per le conseguenze di un incidente stradale avvenuto nelle vicinanze di Borello.
Quando, un’ora dopo, arrivai sul ponte che scavalca il Savio poco prima di Bora trovai la polizia stradale che stava ultimando gli accertamenti: abituato per decenni alle dimensioni e alla ripresa del suo motore aveva azzardato un sorpasso restando incastrato fra l’autocarro che voleva superare e la macchina che stava arrivando dalla parte opposta.
La “500”, poco meno sottile di una piadina, era ancora accostata alla spalletta del ponte e nessuno riusciva a capire come l’autista ne fosse uscito incredibilmente vivo.
Quando arrivai all’ospedale lo trovai avvolto in qualche chilometro di fasce e sotto l’azione dei tiranti per le fratture riportate alle gambe ma, nonostante tutto, era nelle condizioni di dire qualcosa: “Ha visto, caro dottore, che cos’ha combinato questo contadino di Selvapiana? Io non sono tipo da macchina, per uno come me è già troppo il motore e forse basterebbe anche il somaro di Ovidio”.
Qualche settimana dopo fiutò la nostra intenzione di regalargli un’altra macchina, magari più robusta e sicura.
“Se proprio mi volete morto fatelo pure, ma sinceramente vorrei vivere ancora per qualche anno”.
E quello, per quanto ne ho saputo, fu l’unico viaggio di Don Gino alla guida di una macchina: i compagni di caccia che ho conservato in quel paese mi hanno poi riferito che gradualmente, col passare degli anni, aveva ridotto il numero dei viaggi non solo per una certa inevitabile decadenza fisica ma, soprattutto, perché l’era del fax e l’inarrestabile polluzione di sindacati e uffici di patronato di ogni specie e colore ne avevano praticamente annullato la necessita e l’importanza”.
Dott. Gilberto Tonti